Così ora tocca all’interprete.
E non per caso, a questo punto lo devo pensare, mi ritrovo qui tra un compositore e uno psichiatra, dire costretto forse sarebbe più onesto, tra due identità forti della loro storia e del rapporto con la storia del pensiero a tentare di imbastire un inizio di ricerca, di riflessione su quello che facciamo o cerchiamo di realizzare nel momento in cui ci proponiamo quello che, a pensarci bene, potrebbe benissimo essere una prepotenza, un arbitrio e rasentare la paranoia più totale.
Cominciare la ricerca… Si, perché la nostra storia per sua natura rimane affidata alle esecuzioni di chi ci ha preceduto e la nostra identità, fatta solamente di suoni, non ha la parola del linguaggio articolato.
L’interprete non parla.
La natura evanescente del suono che nasce in noi da un vago sentire ha la sua possibilità d’esistenza soltanto nel ricordo delle impressioni suscitate in chi ci ha ascoltato e le impressioni, le sensazioni come diceva anche Leonardo da Vinci, non fanno conoscenza e forse non sono nemmeno pensiero.
Prestiamo suoni, lavorando su qualcosa che è già preesistente e sembra che non mettiamo in atto alcun processo ideativo.
L’interprete non scrive.
Ci accontentiamo di mettere al servizio dell’autore quelle che sono le nostre capacità e, ancora peggio, quello che realizziamo, il prodotto finale per capirci, materialmente non c’è.
La musica come opera d’arte non è un libro né un quadro, non ha oggetto, diciamo meglio, non si concretizza in nessun oggetto estetico materiale. Non è il disco e neanche un corpo che si muove nello spazio. Richter suonava al buio perché così facendo, togliendosi dalla vista del pubblico, costringeva l’ascoltatore a confrontarsi unicamente con il suono che restava l’unico stimolo percepibile.
Allora la domanda terribile: chi non parla, chi come noi fa qualcosa che non si può né vedere né toccare, chi non costruisce nessun linguaggio perché esegue ciò che il pensiero di un altro ha ideato, ha il pensiero?
I suoni che produciamo nell’atto di interpretare sono un pensiero che può realizzare una conoscenza, sono un pensiero come fantasia?
I compositori il pensiero certamente ce l’hanno e, come tutti gli artisti, lo trasformano: lo concretizzano nella partitura che è, in fondo, una forma di scrittura, un testo costruito dalle note, una forma che rimane invariata e, finché rimane tale, mantiene la sua identità di opera musicale nel corso della storia.
Identità che può essere intesa come esistenza e come possibilità di ricerca e di conoscenza sul pensiero umano.
Invece non c’è niente di più variabile nel tempo, di personale e occasionale dell’interpretazione.
E allora?
Ansermet, il grande direttore d’orchestra ci aiuta quando afferma: “Occorre ribadire che la creazione artistica può essere divulgata soltanto mediante l’esecuzione ecco perché è fondamentale il ruolo dell’esecutore. La scrittura non è assolutamente sufficiente a precisare tutto ciò cui egli si deve attenere”.
E Roman Ingarder, filosofo polacco, precisa: “La notazione ci permette di fissare semplicemente alcuni aspetti dell’opera musicale, vale a dire che essa determina solo un certo schema…” poi aggiunge: “Nei momenti dell’opera fissati per mezzo della notazione si trovano una serie di determinazioni puntuali. La scelta di quelle ultime viene lasciata necessariamente al talento e al gusto dell’interprete”.
In pratica, secondo Ingarden, è la natura stessa della notazione del linguaggio musicale a dar luogo a determinazioni poco chiare, mancando di una precisa definizione di tutte le sue parti. In questi punti il compositore può solamente cercare di suggerire all’interprete quella che è una sua intenzionalità, deve necessariamente affidarsi a noi per sopperire alle mancanze di una notazione insufficiente.
Quali sono questi punti? Sono là dove entra in gioco la natura evanescente del suono legata a quello che lui chiama il talento dell’interprete.
Quindi sembra che ci venga riconosciuto non soltanto un ruolo centrale nell’opera di divulgazione del prodotto artistico, ma anche una possibilità di interagire con il linguaggio-sintassi dell’autore e di effettuare delle scelte di tipo estetico, dalle quali dipende la comparsa di qualità emozionali e, la realizzazione dell’opera come oggetto estetico.
Sì differenza cioè, attraverso l’operato dell’interprete il concetto di opera musicale da quello di opera come oggetto estetico, come se la realizzazione sonora della partitura-l’oggetto estetico, fosse un divenire ulteriore dell’opera musicale, il suo necessario completamento.
A questo punto la mia relazione potrebbe dirsi conclusa…
Se non fosse che continua a tornarmi in mente la frase di Ingarden: “la scelta di queste ultime è lasciata necessariamente al talento e al gusto dell’interprete” … perché dice necessariamente?
Il sospetto che si sentano costretti ad accettare la nostra esistenza per uno stato di pura necessità si fa insistente e si accompagna ad una vaga sensazione di libertà vigilata, limitata alla “scelta” di quelle che Ingarden chiama determinazioni puntuali, che nell’esecuzione vanno a riempire i vuoti creati dai punti di indeterminazione.
Ed, infatti, afferma: “Si può dire che il creazione in linea di principio cerchi di configurarsi l’opera in maniera completa nella sua immaginazione…; solo nel fissarla con l’aiuto della notazione egli deve necessariamente rinunciare a diversi particolari, che sono pensati (da lui) come determinati, perché non dispone dei mezzi necessari per scriverli tramite la notazione.
In questa maniera la partitura, in quando forma schematica dell’opera, determina un molteplicità di concretizzazioni possibili ed esteticamente accettabili”
Sarebbe cioè secondo Ingarden, la partitura, in quanto forma schematica dell’opera, il linguaggio, ad avere in sé la potenzialità di determinare interpretazioni diverse, anche al di là dell’intenzione artistica dell’autore.
E poi l’uso della parola “scelta” indica un atto volontario, razionale, è sicuramente non fa riferimento alla sfera emotiva.
Infatti, più avanti afferma: “Questa concretizzazione dell’opera non può essere compiuta a casaccio o arbitrariamente, ma in modo tale da selezionare di volta in volta un preciso gruppo di quei fattori determinanti che sono propri in potenza dei punti di indeterminazione”.
Per capirci, l’interprete dovrebbe selezionare all’interno di un preciso gruppo di fattori stilistici, quali utilizzare per sostituire i punti che rimangono indefiniti.
L’immagine dell’interprete sembra qui essere ridotta a quella di un vigile urbano che controlla il razionale svolgersi della circolazione delle idee musicali…
Un’ultima ciliegina sulla torta:
“L’esecuzione costituisce in molti casi solo la prova per sapere se sia nata una vera opera d’arte o se essa sia fallita”.
Ma forse è meglio dare la parola ai musicisti.
Luigi Nono nel 1953 a Darmstadt parlando di Webern affermava: “… Sarebbe un grande errore e un profondo pericolo voler comprendere la forza creativa di W solo mediante schemi tecnici, concependo cioè la sua tecnica come una tabella numerica. Si deve piuttosto cercare di chiarire come e perché egli abbia impiegato questa tecnica. Se si considerano solo i momenti tecnici della musica, si finisce per non riconoscere il senso e il contenuto… Malgrado ogni speculazione e momento costruttivo l’essenziale sta nel suono, nel fenomeno puramente acustico e nell’esperienza viva della musica”.
Dopo questa frase illuminante viene da chiedersi che cosa sia per i nostri musicologi il talento. Chissà, forse pensano ad una sensibilità fisica, quella vitalità animalesca di cui parlava anche Croce, d’altronde non si dice degli artisti che sono animali da palcoscenico? … forse ci riconoscono una capacità artigianale di usare quelle cose inerti che sono gli strumenti musicali, ma, appunto, artigiani, maestranze, noi lottiamo con la materia, ci sporchiamo le mani con la musica, eseguiamo ordini.
Non avremmo il talento, loro il pensiero, la conoscenza.
E se invece i nostri avessero intuito che noi interpreti riusciamo a realizzare una conoscenza non razionale facendo un rapporto diretto, di pelle, si potrebbe dire intuitivamente, con questo senso-contenuto umano che Nono difendeva così coraggiosamente?
Mentre loro, filosofi della musica, profondamente razionale possono occuparsi solo di linguaggio.
O possono occuparsi solo di linguaggio perché non suonano?
Allora l’interpretazione di un brano è qualcosa che si impara come le tabelline a scuola da piccoli…
Dunque… la musica, i suoni sarebbe meglio dire, rimangono in una sfera che non appartiene alla concretezza della parola, pur avendo una certezza di esistenza fisica, misurabile.
Se io pronuncio o scrivo la parola casa tutti intendono di che si tratta: io posso dirla in cento modi diversi, con cento diverse “intonazioni” agendo sul suono della voce, quindi posso variare il senso, il contenuto espressivo del mio discorso, ma sul significato non ci possono essere dubbi. Con i suoni ci troviamo nei guai perché, per quanto noi possiamo accostarli gli uni agli altrui, in quella che potrebbe somigliare ad una sintassi logica, in realtà non possiamo dare loro un significato univoco (un accordo in do maggiore di per se non significa nulla), perché non soltanto non si legano ad un oggetto materiale percepito ma nemmeno sono una banale descrizione di ricordi-immagini mentali coscienti. Infatti, il senso di una frase può essere completamente differente nel caso sia io a suonare piuttosto che un altro, ma anche l’ascoltatore può creare dentro di sé immagini mentali diverse da quelle di un altro pur partendo da sensazioni simili.
Nelle parole c’é comunque un significato, mentre nei suoni ci può essere un significato sintattico, ma ci deve essere per forza un senso, un contenuto interno, pena l’inutilità… o la follia?
Senza farci confondere da Strawinsky che diceva che la musica è un linguaggio che significa solo se stesso, negando l’esistenza di un senso, ribaltando, direi invece che la musica è un linguaggio, che vive di senso, in cui il linguaggio è tanto più significativo in quanto è fuso al senso, deriva da quello e lo contiene.
Vedo le occhiatacce dello psichiatra… perché sto rubando a piene mani…
D’altronde pensare se stessi e cercare di teorizzare per giunta, è una cosa difficilissima… è rarissimo sentire parlare un interprete che racconta di sé, delle sensazioni che lo portando a affrontare una partitura in un certo modo piuttosto che in un altro.
Premettendo che le strade maestra lungo cui ci muoviamo sono fondamentalmente due: una che potremmo riferire a Toscani i propugnatore della assoluta fedeltà al testo (per lui la partitura contiene già tutto quello di cui l’interprete ha bisogno), l’altra, riferibile e Furtwangler e Ansermet, che proponevano la necessità per l’interprete di agire un’autonoma identità non solo musicale, si può constatare che parlare di noi in genere diventa, o un fatto di esposizione teorico-metodologica le cui basi sono molto spesso filosofiche, (e i filosofi si sono occupati solamente di linguaggio), oppure una banale descrizione di sensazioni vaghe. Si finisce per fare uno psicologismo da quattro soldi.
Dobbiamo quindi cercare di approfondire…
Ripartiamo dalla bellissima frase di nono quando dice che: “malgrado ogni momento costruttivo l’essenziale della musica sta nel suono, nel fenomeno acustico”.
Ci propone che per capire il senso della musica dobbiamo iniziare a considerare una fenomenologia dei suoni come prodotto umano, come manifestazione dell’umanità dell’uomo e della sua fantasia.
Nono dice che il suono è il nostro individuale, personalissimo prodotto artistico.
Dobbiamo cioè pensare al nostro suono come alla rappresentazione artistica di quello che noi siamo, il prodotto della nostra fantasia. Poi magari lo psichiatra ci dirà meglio… se c’è un nesso con: “il suono che esce dalla gola del neonato, quel primo vagito che emerge allorché i polmoni cominciano a funzionare…, suono in cui c’é una realtà mentale che non esiste in natura… precursore necessario e indispensabile perché poi il linguaggio articolato del bambino abbia un senso oltre che essere soltanto ripetizione meccanica del linguaggio imparato”.
Queste bellissime frasi sono di una psichiatra: Francesca Fagioli.
Lo dico nel vano tentativo di farmi perdonare per questa continua propensione al furto. A me sembra che il nesso, con quello che noi interpreti facciamo, sia assolutamente evidente.
Come è assolutamente evidente che nessun musicologo ha mai pensato, o verbalizzato il suono come espressione, manifestazione acustica del “pensiero” dell’interprete, e voglio sottolineare la caratteristica non razione, indefinita di questo pensiero.
Questo pensiero, trasformato in suono è l’unico strumento che noi abbiamo per entrare in quel mondo sconosciuto e silenzioso che è la partitura, sconosciuto come il suo autore, che magari è morto da tempo. Strumenti come l’analisi pure utili per comprendere la figura esterna, lo schema della partitura, in realtà ci dicono poco, restano strumenti parziali, indispensabili ma parziali.
Tutto sembra affidato alla capacità del nostro suono di prendere rapporto, aprirsi ad una recettività… andare e tornare indietro come un sonar, poggiandosi sopra quelle macchie che sono le note, aderendo alla struttura linguistica per entrare in “risonanza” con l’altro.
E’ come se possedesse la qualità-capacità di andare a rappresentare legandosi alla scrittura e nello stesso tempo utilizzandola come veicolante altro.
Questa qualità-capacità del suono non è niente altro che la realtà umana dell’interprete che “riesce a riprodurre quella fusione di suono-senso che il neonato percepisce fin dalla nascita” (anche questa era una citazione…).
A questo punto dobbiamo per forza dedurre che ciò a cui si rapporta la realtà umana dell’interprete non possa essere altro che la realtà-identità umana dell’autore che, nella partitura troviamo fusa al linguaggio, cioè alle note disposte in quel particolare modo piuttosto che in un altro, e allo stesso tempo ne è il contenuto.
“Afferrare l’oggetto affettivo al di là della contingenza dei suoni”, diceva Ansermet. Il senso… che a questo punto possiamo pensare non soltanto come esistente, ma anche come rappresentabile benché indefinito e, quindi, percepibile da chi ci ascolta.
Solo che nella partitura è come se il pensiero-senso dell’autore restasse senza vitalità. Paga il prezzo di poter essere fissato una volta per sempre attraverso la scrittura, e dunque separato “dalla realtà biologica del deterioramento del corpo, posto fuori del tempo”.
Si addormenta e resta in attesa come Biancaneve, o come Brunilde, dell’interpretazione. Quindi il compito dell’interprete è di rendere questo sostrato vitale alla partitura.
L’espressione: “riportare alla vita” mi sembra calzante e fa il nesso con la frase comune che dice essere un bravo interprete chi rende viva la musica.
Ma non solo, perché a contatto con le note il suono produce una reazione in noi, cioè accade quella fusione di suono-senso che dicevamo prima: si formano quelle che, e qui devo di nuovo chiedere perdono allo psichiatra, vengono definite immagini non coscienti.
Queste immagini a loro volta si legano alla dimensione temporale che è la caratteristica del linguaggio musicale: si ha cioè uno svolgimento-percezione di queste immagini nel tempo.
Che non è banalmente la durata del brano, o la scansione ritmica dello svolgimento delle frasi musicali, ma proprio il movimento che l’autore, quasi sempre inconsapevolmente, ha impresso allo svolgersi di queste immagini-senso.
L’interprete deve riuscire a rapportarsi con questo movimento interno, che ribadisco, si lega allo svolgimento della struttura formale, ma non si identifica con essa, bensì ne é l’origine.

In un parallelo con le leggi della fisica moderna M.Mila scrive: “Le leggi della fisica hanno modificato tutte le nostre concezioni della natura della realtà… e là dove il realismo aristotelico e tomistico scorgeva qualcosa di fermo, fisso e immutabile, hanno sostituito una danza irrequieta di particelle cariche di energia…
La vita dell’opera d’arte musicale nell’interpretazione, è un esempio puro e perfetto, un modello di questo nostro universo in moto perpetuo dove la realtà è un rapporto…”.
Dunque, ricapitolando, l’interprete fa un rapporto assolutamente personale con l’autore legandosi attraverso la struttura linguistica a queste immagini-senso indefinite cioè non raffigurabili-descrivibili verbalmente o, se preferite, in maniera cosciente.
E tengo a ribadire che l’oggetto dell’interpretazione non è la soggettività della compositore secondo l’estetica dell’espressione ottocentesca che si basava sul sentimento…
Il livello di profondità a cui può giungere questo rapporto dipende dalla nostra sensibilità, è legato alla nostra identità-qualità umana.
Poi, nel momento dell’esecuzione l’interprete racconterà, quasi fosse una narrazione il suo rapporto con quel brano, con il movimento di quelle immagini mentali non razionali che dicevamo prima.
Anche questo raccontare è legato al tempo, perché è esperienza comune accorgersi del fatto che possiamo suonare in modo diverso lo stesso brano anche a distanza di poche ore.
Questo, che potrebbe sembrare banale, merita invece di essere approfondito, perché va oltre il fatto da tutti accettato che, due diversi esecutori possano eseguire il medesimo brano in maniera completamente differente.
Come accade che, magari solamente suonando in maniera più calma e riflessiva, o più vivace e leggera per un nostro differente stato d’animo, realizziamo l’esistenza di qualcosa di nuovo, una possibilità nella musica di cui non ci eravamo resi conto appena un momento prima?
Si potrebbe ipotizzare una creatività dell’interprete, una sua liberta, e qui uso una parola forte, nel comporre secondo quelle che solo le sue possibilità, questo movimento indefinito di immagini che l’autore di fatto gli ha affidato?
Io credo di si, proprio perché queste immagini, legate alla fusione di senso-suono, sono indefinite.
Si offrono liberamente alle capacità recettive-compositive di ciascuno.
Possiamo realizzarne l’esistenza soltanto se trovano una risonanza dentro di noi e poi rappresentarle nel momento dell’esecuzione componendo un nostro percorso all’interno del loro movimento. Composizione che potrà essere diversa nel tempo perché non è possibile pensarci come se restassimo sempre uguali a noi stessi. Cioè il pensiero non si ferma mai, in una ricerca continua che non può arrestarsi.
La creatività e la libertà dell’interprete sono in questa possibilità di composizione sempre nuova perché sempre diverso è il rapporto con il mondo umano.
Allora possiamo affermare che la frase del nostro filosofo era quantomeno parziale perché, confinava la nostra possibilità di interagire con la partitura soltanto in funzione di tappabuchi, di riempire cioè quei vuoti a cui l’autore era stato costretto, condizionato da un sistema di notazione imperfetto.
Invece noi proponiamo ben altro e cioè che è soltanto attraverso l’interprete e la sua identità umana che si realizza l’identità dell’opera d’arte in musica come oggetto estetico.
L’interprete permette che essa esiste nel suo contenuto di umanità oltre che nella sua identità musicale cioè sintettico-linguistica; permette che l’opera d’arte realizzi le sue potenzialità che venga riconosciuta come tale e che rimanga nel tempo.
Che si storicizzi al di là delle differenti interpretazioni e dei giudizi estetici basati su ideologie. Fondendo la propria soggettività con il frutto della creatività di un altro, trasforma quello che era soltanto il patrimonio di possibilità di una struttura schematica in un’identità, con la speranza-certezza che non possa esistere un linguaggio d’arte senza contenuto.
Per concludere ancora due parole su questo strano rapporto tra compositore e interprete. Il compositore ci dà qualcosa che è il frutto della sua fantasia, qualcosa che gi appartiene profondamente e poi se ne va. Ci lascia soli davanti a quella pagina che era stata bianca e che lui ha trasformato. L’abbandona. Rischia l’imbruttimento della sua fantasia per scoprire nel rapporto con noi che cosa veramente ho scritto, sapendo benissimo che soltanto attraverso l’esecuzione di un bravo interprete la sua musica troverà un suono comprensibile agli altri.
E noi diamo il nostro suono come le balie di una volta davano il latte, affinché la musica viva. Cercando dentro di noi il senso di ogni frase. A volte trovando anche cose che non pensavamo di avere. E non sapremo mai se le idee nuove misteriosamente emerse sono un nostro regalo o piuttosto il regalo che il compositore ci fa stimolando la nostra fantasia. Ma sappiamo, anche se non lo diremo mai, che prima non c’erano.
Poi nel concerto, sicuri della nostra identità, suoniamo come se la musica fosse nostra, ma è un’illusione che dura poco, lo spazio necessario ad eseguire il pezzo. L’applauso del pubblico che pure ci ringrazia ci riporta ad un rapporto più onesto, ma siamo contenti perché con il nostro suono forse siamo riusciti a cogliere e a comporre in un movimento bello, quell’universalità non razionale dell’uomo che, trasformata in linguaggio d’arte racconta e regala agli altri.

Non siamo quelli che non parlano.
Perché non vogliamo parlare.
Abbiamo rinunciato al linguaggio verbale,
alla chiarezza della parola,
per il timore di perdere quello che è il nostro oggetto d’amore,
nella convinzione che il suono può esistere e sopravvivere solo nella rinuncia.
Che può nascere solo dal silenzio.

Sala conferenze del Castello (L’Aquila)
Pierpaolo Iacopini: l’interprete nella musica
1 Marzo 2003